10 dicembre 2014

Reincarnazione reiterata e multiversi: ci sta?

Parto dall’ultimo post su Nietzsche e la reincarnazione per esprimere un paio di considerazioni in merito. Oggi “giochiamo” un po’ con delle idee strane, dai. Vediamo cosa ne esce.

L’ipotesi di Nietzsche (ma non poteva chiamarsi come si legge: “Nice”?!) sull’eterno ritorno è estrema e affascinante come poche. In pratica, per chi non avesse letto l’articolo precedente o comunque non avesse idea di che si tratti, secondo il buon Federico ognuno di noi è destinato a ripetere all’infinito le stesse azioni, gli stessi pensieri, le stesse parole, gli istanti della vita attuale in ogni futura reincarnazione. Non solo: l’intera vita che sta vivendo qui, dalla nascita alla morte, è esattamente identica a tutte quelle che ha vissuto in precedenza. L’individuo si ritroverebbe, quindi, in un ciclo infinito di esperienze nascita-morte uguali spiccicate l’una con l’altra. Io, Pinco Pallino, nato il 30/02/1987, figlio di Tizio Pallino e Tizia Caio, residente a Cessetto Di Sopra eccetera eccetera. E così all’infinito, con tutte le gioie e le frustrazioni ripetute sempre alla medesima maniera, uguali, identiche, immutabili, pari pari.

Come veniva fatto notare nell’articolo, al di là delle reazioni di noia, paranoia o depressione che una prospettiva del genere può facilmente provocare in persone poco avvezze ad argomenti non prettamente consumistici, un grande significato conseguente a questa teoria è l’esistenza di un solo e unico momento: quello presente, il famigerato “qui e ora” sbandierato a destra e a manca fin troppo diffusamente per preservarne il vero senso. Il tempo così come lo intendiamo noi non avrebbe ragione di esistere: se ogni istante è già accaduto infinite altre volte e accadrà altrettante infinite volte, si può davvero parlare di “passato” e “futuro”? Concettualmente, per poter “funzionare” bene, il tempo ha bisogno dei cambiamenti, di modifiche, di movimento: prima mi sentivo in un certo modo, ora in un altro e domani chissà. Ma se questi tre momenti diversi li ho già vissuti perfettamente identici altre infinite volte e li vivrò altre infinite volte… dov’è il cambiamento? Dov’è il movimento? Dov’è il tempo? Ergo: esiste solo il presente.

Altri pensatori la vedevano in maniera leggermente diversa, per cui ogni reincarnazione non sarebbe stata la copia perfetta della precedente ma avrebbe, invece, presentato delle piccole differenze così da permettere una sorta di “cammino evolutivo” personale. Per quel che conta, io mi rispecchio di più in questa versione “alleggerita”: non ci si ritrova imprigionati in un ciclo infinito senza possibilità di scelta e, concettualmente, ripropone a livello metafisico ciò che è possibile osservare virtualmente in ogni dove nella natura: l’evoluzione, la crescita, il movimento della vita. In definitiva, la vita stessa. Si rinasce sempre Pinco Pallino ma in questo caso per un numero finito di volte: quando arriva quella buona, ovvero quando si sono “imparate tutte le lezioni necessarie” (equivalente del famoso “giudizio” cristiano), si cambia e si rinascerà chissà dove, quando e chi.

Così intesa, però, viene a mancare l’esistenza esclusiva del “qui e ora” e il tempo, subdolo e infingardo, riprende il suo ruolo centrale di metronomo. Ma forse no.

Facciamo un ragionamento, esplicitiamo un attimo meglio la questione, giochiamo un po’ dai. Io, Pinco, nasco qui il giorno tal dei tali, vivo la mia vita e inesorabilmente tiro le cuoia dopo tot anni. Facciamo che voi siete vivi, invece. Ma non abituatevici troppo… Abbiamo così due punti di vista dai quali vedere la faccenda: io che crepo e voi che ne testimoniate.

1) Io che crepo: dal mio punto di vista, l’universo e le sue dimensioni spazio-temporali si dissolvono insieme a me e io vengo catapultato o indietro fino al giorno della (ri)nascita come Pinco o, se sono riuscito a comprendere meglio un paio di cosine interessanti, in qualche altro luogo in chissà quale tempo, in una esperienza per me completamente nuova.

2) Voi che ne testimoniate: per come la vedreste voi, il mio corpo sarebbe lì steso immobile, svuotato della mia presenza, e la vostra esperienza continuerebbe tranquillamente.

E qui entra in gioco il tempo, le linee temporali e gli universi paralleli, robetta utile per provare a capire un po’ di più di cosa si sta parlando. Assumendo che io, morendo, tornassi in qualche modo indietro nel tempo fino al giorno della mia (ri)nascita, avrei una situazione di conflitto con il “me originale”, quello che effettivamente è nato qui e ha vissuto fino all’attimo della morte. Classico paradosso temporale. Quello che accade, invece, è il “trasferimento” verso un’altra linea temporale “parallela” a quella attuale. Dunque c’è un “salto” al giorno tal dei tali dell’universo parallelo più “vicino” al nostro in termini di esperienze e di avvenimenti. Rinasco come Pinco, nello stesso luogo, nello stesso istante, la stessa famiglia eccetera e rivivo un’esistenza molto simile alla precedente, con delle piccole variazioni dettate tendenzialmente dal mio modo di “prendere” e reagire agli avvenimenti. La mia vita attuale diventa in pratica il punto di partenza della prossima, la quale sarà la base della successiva e così via.

Si capisce che in questo modo il tempo per come lo intendiamo viene cancellato in toto? Infiniti universi, infinite linee temporali. Ogni momento esiste sempre, all’infinito. Io sto nascendo (e morendo) proprio… ora. E ora. E ora. E ora. E ora. Però c’è anche il movimento: a un certo punto sarò giudicato “positivamente” e dunque per me non sarà più necessario rinascere come Pinco. Quindi un tempo esiste, ma non è quello che intendiamo noi. Trascendente il tempo “normale”, potremmo chiamarlo “tempo animico”, relativo all’anima, che porta con sè la memoria delle esperienze vissute in “passato”, senza risentire di morti fisiche e “salti” tra universi. Mettendola in termini informatici, che fa tanto figo, la mente e il corpo che ci ritroviamo in ogni incarnazione sono l’equivalente naturale della memoria RAM: ogni volta che spegniamo il computer, la RAM viene svuotata, resettata e i dati presenti vengono cancellati. L’anima è il disco rigido: non importa quante volte si spegne il computer perchè i dati memorizzati lì saranno presenti anche al prossimo riavvio e a quello dopo, e a quello dopo ancora e via di questo passo.

E’ tutto figurato, eh, sono tutte immagini fittizie per convogliare qualcosa di più profondo. Se poi funzioni effettivamente così non ne ho idea e non è nemmeno l’aspetto più importante. Lo scopo, come sempre, è riuscire a smuovervi qualcosa dentro e provare a farvi giungere a un piccolo shock interiore, un blackout estatico che faccia emergere un sottile e profondo entusiasmo. E’ quella stessa sensazione che ho provato io dopo aver letto l’articolo su Nietzsche e che mi ha spinto a riportarlo qui sul blog e a scrivere queste considerazioni.

Non dovete aspettarvi dagli altri la verità. Come fate a dire che un’informazione è vera? Perchè viene da una fonte piuttosto che da un’altra? Come fate a essere certi, ad esempio, che oggi a Karachi è esplosa un’autobomba? Piccolo consiglio: non siate passivi. Io non lo so se l’intuizione di Nietzsche e/o la versione “light” siano vere, ma nel leggerle hanno generato un attrito, si è creata una visione alternativa che prima non c’era e il contatto (dualismo) tra questa e la mia visione, preesistente, ha fatto partire un processo di ragionamento avente come risultato una nuova sintesi. Dal dualismo (tesi-antitesi) emerge una terza forza (sintesi), frutto del “lavoro” attivo personale svolto per elaborare i due blocchi di informazioni, armonizzarli e unirli. Congiungere gli opposti.

Comunque sia, torniamo a noi. Scendendo un po’ dalle stelle del multiverso, la teoria della “reincarnazione reiterata”, diciamo così, è la spiegazione migliore che ho trovato finora per un fenomeno che trovo straordinariamente affascinante nel suo mistero: il deja-vu. Per essere precisi, il “deja-vecu” (un tipo di deja-vu) ovvero la netta sensazione di avere già vissuto il momento e la circostanza che si sta palesando ora nella nostra realtà più strettamente circostante. Penso sia capitato anche a voi almeno una volta nella vita. A me succede ogni 3 settimane in media, a occhio e croce. Sono lì tranquillo, vivo la mia vita normalmente e poi, all’improvviso, sorge la nettissima sensazione di avere già “vissuto” quella determinata circostanza: “rivedo” esattamente lo stesso scenario che mi circonda, “ri-sento” esattamente gli stessi suoni, “ri-provo” esattamente le stesse emozioni. E’ tutto incredibilmente identico e dura, boh, 5-6 secondi, dopodichè la “finestra” si chiude a la magia finisce.

Ho provato a cercare “deja-vecu” su Google e il primo risultato è l’autorevole Treccani.it, che riporta la definizione del fenomeno. Eccola:

déjà-vécu   Sensazione di aver già vissuto una particolare situazione (dal franc. «già vissuto»). Classificato come un disturbo qualitativo della memoria, la sensazione di aver già vissuto un evento costituisce più frequentemente un disturbo dell’affettività associata alla memoria e si realizza nello sperimentare come familiare una condizione mai vissuta in precedenza. Come stato dissociativo, può essere presente tanto in malattie neurologiche, quanto in patologie psichiatriche come psicosi acute o croniche, disturbi dissociativi o gravi disturbi d’ansia. “

Ora, è vero che la mia memoria non rappresenta esattamente l’anello di collegamento con il prossimo passo dell’evoluzione umana, ma un paio di cosette riesco a ricordarle anch’io e so riconoscere la differenza tra un ricordo “normale”, che risiede nella memoria, e uno che non è nemmeno un vero ricordo ma ha un’intensità pazzesca. Non è nemmeno un vero ricordo perchè non ho la minima consapevolezza di cosa stia per accadere fin quando non accade. Non ricordo quella determinata circostanza fino all’attimo esatto nella quale si verifica. E comunque sia, un ricordo, per quanto bello o intenso, non riesce neanche lontanamente a raggiungere una veemenza così energica come quella del deja-vecu. Chiamarlo “disturbo qualitativo della memoria” mi sembra abbastanza denigratorio ed erroneo o, detto con un termine tecnico: una cagata. In salsa medico-scientifica, ma una cagata.

E, già che ci siamo, vorrei sapere anche quale razza di bislacco disturbo mentale sia riuscito a convincermi, appena mi svegliai un giorno di qualche anno fa, oltre ogni possibile dubbio che quella stessa mattina in università avrei fatto amicizia con qualcuno, cosa che puntualmente accadde un paio d’ore dopo.

Chiaramente, l’ipotesi della “reincarnazione reiterata” spiegherebbe perfettamente la faccenda: avendo già vissuto un numero imprecisato di volte quei momenti, ed essendo essi “memorizzati permanentemente nell’anima”, è solo una questione di attimi di “apertura sensoriale”, diciamo, che ci permettono di dare una sbirciatina temporanea su quello che ha da venì. Non fa una grinza. Magari non è la spiegazione reale, ma non fa una grinza.

Un altro aspetto affascinante ma che diamo puntualmente per scontato perchè “tanto è già stato tutto spiegato dagli scienziatoni dell’università di Thisdick” è quello relativo alle propensioni naturali, quei talenti innati, quelle cose che ci vengono più facili praticamente da quando nasciamo. Io, per esempio, ho scoperto di essere naturalmente portato per la lingua inglese: già da quando iniziai a studiarla in terza elementare (credo fosse la terza… Comunque giù di lì…) non la trovai particolarmente complicata e mi accorsi, nel tempo, che non ebbi mai troppo bisogno di sbatterci violentemente la testa a nastro per capirne le regole grammaticali e di sintassi. Ovviamente ero sempre il migliore della classe tanto che spesso, quando c’erano le verifiche, i professori mi mettevano a farle alla cattedra per evitare che suggerissi le risposte a mezzo mondo.

Alle superiori c’erano un altro paio di miei compagni piuttosto bravi ma qui stava la differenza: io quasi non aprivo neanche il libro e, giuro su Dio, non ho mai preso un voto più basso di 8 (una volta in seconda superiore, non per tirarmela, ma è andata proprio così, presi 8 e mezzo su un massimo di 8 da tanto feci bene la verifica); loro studiavano, studiavano e studiavano ed effettivamente erano bravi, ma a fine anno si beccavano sempre una valutazione più bassa della mia. Mentre per loro era necessaria una “forzatura” per riuscire a imparare la lingua di Albione, a me veniva quasi spontanea, naturale. Ero, al contrario, una discreta chiavica in geometria. In matematica andavo piuttosto bene, ma dovevo studiare parecchio: alle medie avevo un compagno che invece era un genio e il libro lo usava come fermacarte.

Come mai? Da dove vengono queste propensioni? Perchè nasciamo già predisposti verso determinate attività? Anche qui: “reincarnazione reiterata” ma nella versione “alleggerita”, non quella di Nietzsche perchè non ammette un qualsivoglia cambiamento, per cui a rigore noi verremmo creati direttamente con determinate caratteristiche statiche e ce le porteremmo dietro immutate per l’eternità. Rimarrebbe sempre la domanda: da dove vengono e per qual motivo? Con la versione alleggerita, invece, a ogni incarnazione si vivono quasi le stesse esperienze e oh, vivile una volta, vivile due, tre, quattro, cinquanta, millemila volte: alla fine qualcosa ti rimane, no? Evidentemente, per tornare al mio esempio, il mio compagno delle medie sarà arrivato a un punto nel quale si è innamorato della matematica e da lì in avanti ha ogni volta approfondito la materia; analogamente, io ho già avuto tante altre occasioni per entrare in contatto in qualche modo con il mondo anglo-sassone e il suo idioma (tra l’altro l’occasione ce l’ho anche oggi e non perchè l’inglese è diffusissimo ovunque, ma per questioni personali).

Lo ripeto per l’ennesima volta: non lo so se le cose stiano davvero così, non mi importa e non dovrebbe importare nemmeno a voi. Chi se ne frega! Qui si sta cercando di fare un esercizio, un “lavoro” di ragionamento dettato dalla continua collisione tra il vostro punto di vista e un altro. Punto. Dualismo in azione, polarità opposte che generano una carica potenzialmente liberatoria. Poi i giudici siete voi e solo voi, non fidatevi delle presunte verità altrui e non subitele passivamente: elaboratele, usate la vostra intelligenza perchè guardate che la utilizziamo effettivamente molto, ma molto meno di quanto crediamo. E’ molto più facile barricarsi dietro la propria presunta superiorità intellettuale e fare gli snob pieni di compatimento e pena verso tutto ciò che esula dal piccolo castello di sabbia che si è così faticosamente costruiti nel corso di anni e anni di comoda assimilazione della stessa minestra tiepida.

La meraviglia è che abbiamo la possibilità di prendere anche la più grande vaccata nella storia dei multiversi e “farla nostra”, ovvero: prenderla, elaborarla con tutto noi stessi (e non solo con la mente o con il cuore o con il culo) ed estrapolare chirurgicamente quell’aspetto di verità che si palesa sotto innumerevoli forme in ogni dove. In quel momento abbiamo creato un’informazione fino ad allora completamente assente, la quale diverrà una nostra verità. Tesi-antitesi-sintesi.

Si capisce che l’idea di “vero” e “falso” cambia? Non è più inerente al mero contenuto dell’informazione, ma al modo con il quale “lavoriamo” l’informazione grezza stessa. Il famoso motto del vecchio Fox Mulder in X-Files, “la verità è là fuori”, mmm… Non solo, direi.

02 dicembre 2014

Nietzsche e la ricorrenza

Riporto un articolo che ritengo estremamente interessante, uno dei pochi tra quelli che leggo in giro. Buona lettura!

(tratto da Anticorpi.info)

L'Eterno Ritorno (Nietzsche e la Ricorrenza)

Sei Già Stato Qui?
di G. Lachman

Traduzione di Anticorpi.info

La credenza nella reincarnazione è uno dei più antichi concetti umani, talmente vecchi e persistenti che lo psicologo Carl Jung la definì: archetipo. "Rinascita", scrisse Jung, "è un'affermazione primordiale dell'umanità; tali affermazioni sono basate su ciò che definisco: archetipi." Questo significava che a prescindere dalla sua veridicità o falsità il concetto delle vite precedenti e future sarebbe in qualche modo radicato nella psiche umana.  eterno ritorno

Siamo, per dirla in linguaggio informatico, programmati per pensare, e sebbene non tutti accettino l'idea, a quanto pare condivideremmo una serie di concetti fondamentali circa il significato della morte e della vita ultra-terrena.

L'insieme di tali concetti sembra essere sorprendentemente esiguo. C'è la possibilità di reincarnazione o rinascita, come detto, con la convinzione che dopo avere lavorato per pagare il personale debito karmico si riesca ad uscire dalla ruota della vita. C'è anche il concetto secondo cui dopo la morte si prosegua a vivere in qualche 'altro' regno, il cielo del Cristianesimo, il paradiso dell'Islam, il Valhalla del mito norreno, i Campi Elisi dell'antica Grecia. Bisogna sottolineare che non tutti questi aldilà sono dipinti come desiderabili: fuoco e zolfo attendono i malvagi nell'inferno del cristianesimo, ed i Greci, forse storicamente i più grandi cultori della vita terrena, avevano l'idea di un'orribile eternità nel regno delle ombre. In ogni caso ognuno di questi scenari che contemplano un altrove dopo la morte ipotizza una sola esistenza terrena. Una volta vissuta, a seconda di come ci siamo comportati saremmo destinati ad ottenere la nostra ricompensa o punizione.

Secondo l'ottica dei pagani, dopo la morte la materia che compone i nostri corpi torna a fondersi alla natura insieme con lo spirito o anima. Possiamo poi eventualmente godere di una sorta di aldilà sotto forma di fiori, alberi, o erba.

Esiste anche la convinzione che la morte sia la fine. La coscienza non esiste; le nostre credenze, le idee, i sentimenti, i valori - tutto ciò che abbia avuto importanza per noi - sono annientate quando il nostro cervello smette di funzionare. In questa visione, tutto ciò che c'è è la nostra vita presente, e dopo di essa vi sarebbe il nulla. Molti associano questo punto di vista alla scienza moderna, ma le sue radici sono in realtà molto antiche. Il filosofo greco Democrito asseriva che ogni cosa sia fatta di piccoli pezzi di materia ai quali diede il nome di atomi (cioè: indivisibili). Secondo Democrito, dopo la morte tutto cessava a causa della dispersione degli atomi del corpo.

Il mio approccio al riguardo si colloca nel campo dell'agnosticismo. Semplicemente non ne ho idea. Il che non significa che non riconosca l'importanza di avere una qualche idea in proposito. Sul perché si muoia tendo a vederla come il drammaturgo George Bernard Shaw nell'opera Back to Methuselah, in cui sostiene che gli esseri umani non muoiano di malattia o vecchiaia, ma di scoraggiamento, della perdita degli intenti e della volontà di vivere. Decenni più tardi, nel libro Man's Search for Meaning lo psicologo Victor Frankl confermò questa intuizione nella cornice raccapricciante di un campo di concentramento nazista, quando osservò la maggiore resistenza dei prigionieri motivati dalla speranza di qualcosa da realizzare in caso di sopravvivenza, rispetto a coloro che avevano perso ogni speranza, spesso i primi a perire.

Shaw sosteneva che la nostra attuale vita sia troppo breve, perché è solo verso la fine di una lunga vita che alcune persone cominciano ad avere un assaggio del suo valore. Morire a ottant'anni, proprio quando si incomincia a comprendere qualcosa di tutta la vicenda, sembra inutile. Shaw immaginava la possibilità che alcune persone imparino a vivere più a lungo, così a lungo da raggiungere, salvo incidenti, i trecento anni d'età.

Vorrei sottolineare che i longevi di Shaw - definiti Antichi - guadagnano la loro longevità non attraverso mezzi tecnologici o chimici, né seguendo un rigoroso regime di vita salutistico, per quanto Shaw stesso - che visse fino a 94 anni - fosse vegetariano. Gli Antichi di Shaw raggiungono la longevità attraverso la pura voglia di vivere e la loro disponibilità a soddisfare le finalità che Shaw definiva: 'la forza della vita', una sorta di spinta evolutiva che costringe la vita a trascendere se stessa. Nel suo precedente lavoro: Man and Superman Shaw enuncia in termini sia drammatici che comici la filosofia della 'forza vitale', e per qualche tempo dopo aver letto Back to Methuselah restai affascinato dalle biografie di scrittori, artisti e pensatori morti in età estremamente avanzata. C'era Shaw stesso. C'era il romanziere John Cowper Powys, che morì a 91 anni, il critico e filosofo Owen Barfield, morto a 99 anni, lo scrittore tedesco Ernst Jünger morto a 101 anni, e molti altri, tra cui il compositore Jean Sibelius e il filosofo Bertrand Russell, che superarono i 90.

Nel suo romanzo di fantascienza La Pietra Filosofale, Colin Wilson - epigono di Shaw - suggerì che ci fosse una qualche connessione tra la ricerca di idee e la longevità. La sua intuizione fu che un interesse oggettivo verso discipline come la matematica, la filosofia e, in modo simile, la bellezza impersonale riscontrabile - ad esempio - nelle sinfonie di Sibelius, con il loro profondo sentimento per la natura - si ponga in linea con i disegni della forza della vita, la quale ci indurrebbe a trascendere i nostri scopi soggettivi, troppo limitati. Chiunque sia in grado di percepire la bellezza oggettiva e il fascino infinito della realtà che ci circonda - asseriva - non si annoia mai e quindi ha tutte le ragioni per continuare a vivere.

Ad ogni modo, quando parlo di questi concetti con amici o conoscenti la risposta standard è qualcosa sulla falsariga di "300 anni? Dio, chi vorrebbe vivere così a lungo?" Tutto ciò è interessante, perché ottengo risposte simili anche quando parlo di un altro concetto che ha sempre suscitato uno strano fascino su di me.
Sappiamo che nella sua accezione comune la reincarnazione consista nel ritornare sulla Terra sotto forma di una persona diversa in un tempo diverso (anche se in qualche modo con la stessa anima o spirito). Da giovane, quando mi interessai agli scritti del filosofo Nietzsche, rimasi affascinato da una diversa nozione di reincarnazione, quella dell'Eterno Ritorno. Questa idea suggerisce che avremmo - usando la definizione coniata da Rudolf Steiner - "vite terrene ripetute", dunque invece che vite diverse, vivremmo sempre la stessa vita, più e più volte. In altre parole: mi sono seduto davanti al computer per scrivere questo saggio un numero infinito di volte in passato e l'ho anche letto un numero infinito di volte, e continuerò a farlo all'infinito. Nascerò ancora una volta dai miei genitori, subirò gli stessi traumi e delizie infantili, avrò le stesse esperienze, gli stessi fallimenti e successi, la stessa morte - e poi la ruota tornerà a girare dal principio, e tutto ricomincerà.

La maggior parte di noi tende a respingere l'idea, trasalendo per la prospettiva di noia eterna che una tale nozione offre. L'idea di tornare di nuovo sulla terra come una persona diversa sembra molto più attraente, e perfino la prospettiva di un completo annientamento potrebbe sembrare preferibile al fare lo stesso giro in eterno. Lo capisco perfettamente e non ho intenzione di sostenere che l'eterno ritorno sia più veritiero o preferibile alla reincarnazione o ad altre possibilità ipotizzate sul dopo-morte. Tuttavia devo ammettere che tornare ai miei libri, amici, figli, gioie, dolori mi sembri più attraente rispetto all'eternità di contentezza beata trascorsa in mezzo a putti e nuvole contemplata da alcune raffigurazioni dell'aldilà.

Uno dei motivi (non il più importante) per cui ho continuato a coltivare questa idea dell'eterno ritorno è dovuto alle reazioni che suscita negli altri. Diversi anni fa lavorai presso una libreria metafisica a Los Angeles. Tra le mode dell'epoca - i cristalli, la dea, la programmazione neuro-linguistica - una delle più popolari era l'idea di esplorare le proprie vite passate. Restai sorpreso nello scoprire che le tante persone interessate al tema percepivano di aver vissuto esistenze passate infinitamente più interessanti della loro vita presente. Nessuno percepiva che la sua vita precedente fosse stata una noia. C'era anche un buon numero di persone che nelle loro vite passate sebbene non proprio famose erano state in qualche modo importanti; sacerdotesse in Egitto, maghi in Atlantide, re e regine. Non molti sarti e macellai. Purtroppo, qualunque sia la verità sulla reincarnazione, gran parte delle persone che se ne interessano sembrano considerarla più come un modo di rendersi più interessanti in questa vita. Così, quando confidavo loro di sentirmi attratto dall'idea che ci sia solo questa vita da vivere un numero incalcolabile di volte, ricevevo in cambio sguardi straniti, come fossi pazzo. Nonostante le reazioni incredule che provoca - o forse a causa di esse - la filosofia della ricorrenza di Nietzsche merita considerazione.

Lungi da qualsiasi idea machiavellica, Nietzsche era turbato dal problema della sofferenza umana, considerata questione centrale da cui erano emerse le grandi religioni. Attraverso  il suo accostamento ai nazisti Nietzsche ha acquisito la reputazione di filosofo della crudeltà e tirannia. Il suo übermensch o superuomo è visto come un brutale fascista che spadroneggia sulle masse. In realtà Nietzsche era una persona premurosa, timida e gentile; era così timido che incaricò un amico di chiedere la mano della donna che amava (non a caso, ricevette un rifiuto). In effetti, egli aveva una sensibilità quasi morbosa per la sofferenza, sia umana che animale. Questo fatto è provato da una famosa vicenda avvenuta quando era già affetto da ciò che gli studiosi supponevano fosse sifilide in fase avanzata. In questa storia, Nietzsche vide un cocchiere frustare un cavallo. Con le lacrime agli occhi gettò le braccia intorno al collo dell'animale, cercando di consolarlo. Poi cadde a terra e quando si risvegliò non era più sano di mente.

Nietzsche non credeva in una qualsiasi forma di vita ultraterrena, e soprattutto non credeva nel cielo del cristianesimo di cui attaccò l'ipocrisia in uno dei suoi ultimi libri: L'Anticristo. Di contro però manifestava un forte apprezzamento del significato e della bellezza di questa vita; lo struggente senso quasi mistico del valore del nostro mondo, del suo dramma e del mistero che la maggior parte di noi percepisce. In effetti, Nietzsche credeva che tutte le idee di una vita ultraterrena fossero il prodotto di un'incapacità di affrontare l'incertezza ed i fatti terrificanti di questa vita; erano, secondo lui, una sorta di calunnia contro la vita, un rifiuto di ciò che per lui era dolorosamente prezioso. Piuttosto che accettare le condizioni della vita - che comprendono dolore, sofferenza e tragedia unite alla bellezza - e viverla per ciò che è, Nietzsche credeva che molti preferiscano considerarla inutile rispetto ad un 'altro' mondo ideale al quale si accederebbe dopo la morte. In un certo senso l'idea di un aldilà era per lui una specie di uva acerba.

Nei suoi taccuini - pubblicati dopo la sua morte - Nietzsche cercò di dimostrare che la ricorrenza fosse un fatto, attingendo dalla scienza della fine del XIX secolo e la legge che sanciva che la materia non possa essere creata né distrutta, ma solo trasformata. Le sue argomentazioni, tuttavia, non furono molto convincenti. Data una quantità limitata di materia ed energia ed un'eternità di tempo, asseriva, l'universo deve necessariamente realizzare il suo numero astronomico ma finito di combinazioni. A quel punto inizierà a ripetersi, e la disposizione delle forze che hanno condotto alla scrittura di questo saggio finirà per ripetersi. Altri filosofi successivamente dimostrarono l'implausibilità della teoria di Nietzsche - il quale non fu mai bravo in matematica - tuttavia la forza delle sue idee sulla ricorrenza non risiede tanto nella dimostrabilità, anche perché egli comunque non fu mai veramente interessato a elaborare una qualche teoria di meccanica cosmica. Ciò che colpisce della teoria della ricorrenza è la poesia, il fatto che una tale idea infonda alla vita un nuovo e drammatico senso. Il senso che ha indotto il romanziere Milan Kundera ad attingere dalle idee di Nietzsche nel suo libro L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere.

dal Film K-Pax


Canale YT MrEssenzialmenteluca

L'idea di ricorrenza, secondo Kundera, dona peso alla nostra esistenza; la carica di una gravità senza cui vi è il pericolo di scivolare nell'incoerenza. Funziona così perché l'idea che le nostre azioni si ripeteranno ancora ci spinge a considerarle in modo diverso. Ciò che sto facendo ora è qualcosa che vorrei fare per l'eternità? Nietzsche era convinto che il pensiero della ricorrenza potesse agire come una sorta di prova, una sfida per determinare il proprio atteggiamento verso la vita. Pensate alla vostra vita. In che modo accogliete l'idea che si ripeterà in tutti i suoi dettagli? Vi sentite - chiede Nietzsche - schiacciati dal pensiero, cioè sentite che la vostra vita è un tale peso che ripercorrerla sarebbe per voi come una sorta di punizione? O vi sembra invece di avere vissuto momenti di tanta gioia e appagamento da accettare i momenti di sofferenza, imbarazzo, noia? La visione di Nietzsche era olistica: tutto è collegato, parte della grande catena del destino, e dire sì ad una gioia - sosteneva - equivale a dire di si ad un'equivalente porzione di dolore e malcontento.

Ne La Gaia Scienza - scritto nel 1881 - Nietzsche riassunse tale idea con un motto: Amor Fati. L'amore per il destino è secondo Nietzsche la prova del proprio carattere. "Voglio imparare sempre di più a vedere quanto bella sia la necessità delle cose; allora sarò uno di quelli che fanno le cose belle." Nella sua brillante, insolita autobiografia Ecce Homo, scritta poco prima del suo definitivo crollo mentale, Nietzsche caricò il concetto. "La mia formula per la grandezza di un essere umano è: amor fati; il volere ciò che si ha, non nel futuro, non nel passato, non in tutta l'eternità. Non solo sopportare le necessità che si presentano ... ma amarle."

Per Nietzsche arrivare a una tale filosofia non era un risultato da poco. Nella sua vita soffrì incessantemente di un nutritissimo assortimento di disturbi: emicrania, problemi di vista, intolleranze alimentari, ed altro. Fu anche un uomo molto solitario, di quelli che vivono in povertà e si spostano di pensionato in pensionato alla ricerca del clima giusto per guadagnare qualche breve tregua dalla loro dura condizione. Era praticamente senza amici, e nessuno lo leggeva. Oggi è uno dei pensatori più discussi del XIX secolo, alla pari di Darwin e Marx, ma durante la maggior parte della sua vita fu sconosciuto o ignorato. Che qualcuno con una tale esperienza di vita abbia abbracciato l'idea della ricorrenza, è una cosa che fa riflettere.

Altri pensatori si sono ispirati all'idea di ricorrenza. Lo scrittore russo PD Ouspensky per esempio usò il tema nel romanzo La Strana Vita di Ivan Osokin. Ouspensky interpreta la ricorrenza in modo piuttosto diverso rispetto a Nietzsche, e le sue idee influenzarono un altro "uomo stregato dal tempo", lo scrittore e drammaturgo JB Priestley. I suoi popolari lavori I Have Been Here Before e Time and the Conways sono forse quelli che esprimono meglio l'idea. Laddove Nietzsche sosteneva che tutto nella nostra vita si ripeta esattamente come prima, Ouspensky offre qualche speranza di cambiamento, suggerendo che in ogni vita si verificherebbero lievi variazioni attraverso cui avremmo la possibilità di cambiare le cose in meglio.

In un certo senso, a pensarci bene, l'insistenza di Nietzsche sulla ricorrenza esatta di ogni dettaglio in realtà induce a concludere che tutto ciò che possediamo è questo momento. Se tutto si ripete in modo identico, allora ogni ricorrenza è in realtà solo questo momento. La prossima ricorrenza e la precedente erano esattamente come quella presente, quindi non c'è davvero alcun modo di distinguere l'una dall'altra. E così, in un certo senso pratico, l'unica esperienza che avremmo sarebbe Adesso. La versione di Ouspensky è un pò più vicina all'idea tradizionale di reincarnazione, in quanto ipotizza la possibilità che con ogni ricorrenza avremmo la possibilità di fare alcuni cambiamenti per il meglio in modo tale da sviluppare noi stessi e, infine, tirarci fuori dal tapis roulant.

Nietzsche avrebbe considerato la teoria di Ouspensky come un altro tentativo di sfuggire alle necessità della vita. La mia sensazione è che per quanto sia interessante intavolare una dialettica tra le due visioni, alla fine la funzione è la stessa. Personalmente, non credo che potremo mai dimostrare la ricorrenza in un modo o nell'altro. Il valore reale di questa idea per me è il senso che può infondere nella nostra vita. Chi tende alla paranoia potrebbe iniziare a soppesare ogni piccola azione, preoccupato che possa essere l'inizio di alcune serie infinite di errori. D'altro canto se qualcosa sta accadendo ora (secondo la teoria) vorrebbe dire che sia già accaduta. Per cui si rischierebbe di cadere vittime dei sentimenti incoerenti di Kundera: cosa importa ciò che facciamo se prima d'ora è già stato fatto innumerevoli volte?

Per quanto mi riguarda, l'idea che la mia vita non sia solo tanti anni di attività senza senso, ma possa invece avere qualche collegamento con il vasto schema eterno delle cose è a volte incoraggiante e stimolante. Non so se sono stato qui prima d'ora, ma so che posso agire come se lo avessi fatto. Riconoscendo questo posso guardare avanti, verso un nuovo ritorno.

Articolo in lingua inglese pubblicato sul sito New Dawn Magazine
Link diretto:

http://www.newdawnmagazine.com/articles/have-you-been-here-before

Traduzione a cura di Anticorpi.info