21 luglio 2017

Chester Bennington e riflessioni sul suicidio

chris cornell - chester bennington
Chris Cornell e Chester Bennington

Volevo scrivere un post sul mio ritorno di fiamma verso certe tematiche, generalmente (e superficialmente) definibili come "spirituali", dopo un anno e mezzo abbondante di "allontanamento" da esse causa saturazione mentale sull'argomento, ma poi ho saputo della morte per suicidio del cantante dei Linkin Park, Chester Bennington, e quel post originale per il momento lo casso in favore di una riflessione, sempre di un certo tipo, sul suicidio stesso. (Comunque, per i fan "di lunga data" del blog, sappiate che al momento quel fuoco di cui ormai più di un anno fa avevo scritto quasi un epitaffio, è tornato bello vivo e cazzuto come al solito)

Solo un paio di mesi fa un altro artista rock, Chris Cornell, leader dei Soundgarden e degli Audioslave, se n'era andato per suicidio. Ieri, giorno del compleanno di Cornell, il suo amico Chester Bennington ha messo anch'egli nero su bianco che non ne poteva più della sua vita.

E questo evento catalizzatore, unito alla nuova e recentissima sfiammata personale verso il lato nascosto del mondo e della vita, mi ha fatto sorgere una considerazione sull'idea del suicidio, troppo spesso etichettata come "codardia" o "debolezza". Di codardo e di debole, cari miei, non c'è proprio un cazzo di niente. Anzi, vi dirò di più: pensare al suicidio è segno di sanità mentale.

Mi spiego, perchè qua già mi vedo i rompipalle che pensano io stia istigando al suicidio. È evidente, sotto gli occhi e sotto la pelle di chiunque, che non siamo felici. Il 99%, a essere ottimisti, delle persone non è felice. E con "felicità" intendo "realizzazione", la consapevolezza piena di sè stessi, della realtà, dell'universo, di Dio, della vita. Chiamatela come volete: è quella roba lì. Ognuno e ognuna di noi non è davvero a posto con sè stesso e con sè stessa. Chi sostiene il contrario mente. Con buona probabilità in buona fede, ma mente, a sè stesso in primis.

Percependo questo stato di perenne insoddisfazione, e non avendo le nozioni quantomeno teoriche per innescare un processo diverso e/o la lucidità necessaria a capirle autonomamente, di norma l'individuo cerca aiuto all'esterno: nelle altre persone, in organizzazioni, entità, istituzioni, gruppi, attività, usi e costumi eccetera. Ma il fatto è che: organizzazioni, entità, istituzioni, gruppi e similari sono in qualche modo corrotti e hanno l'obiettivo di perpetrarsi nel tempo; le persone, salvo quelle due o tre davvero sincere e amiche, sono malate di mente peggio di te; la cultura, gli usi e i costumi sono intellettualmente simpatici, ma rappresentano dei passatempi o informazioni rilevanti ma totalmente errate nell'interpretazione; le attività possono essere utili per esprimere sè stessi e scoprire parti di sè, ma le errate interpretazioni culturali portano sempre a far ricadere su di loro la possibilità per noi di essere felici, convincendoci così che possiamo essere felici, e che siamo effettivamente felici, solo quando svogliamo quella o quelle determinate attività.

Insomma: dentro di noi sentiamo merda e dal mondo esterno, ormai assurto a nostro salvatore, arriva ancora merda. Dopo anni e anni di sterco a palate quotidiane, una persona normale deve necessariamente arrivare a un punto di saturazione, a un momento in cui non ne può più di sentirsi addosso, sulla pelle e sotto la pelle, tutta questa miseria, questo schifo, questa stupidità e ignoranza. Deve arrivare un attimo in cui si ferma e dice: dev'esserci qualcos'altro, questo stato ridicolo e folle di conflitto e miseria costante non può essere l'unico esistente. Un individuo normale deve arrivare a dire: "Mi sono rotto il cazzo". Se non ci arriva significa che non ne ha avuto abbastanza, che non percepisce ancora la gravità immane della sua situazione, che si è perso in qualche illusione della felicità, che per lui è normale e che a lui va bene così. Per carità, liberissimo di vivere come meglio crede, ci mancherebbe. È il bello della natura/vita: dà per quello che si è, senza giudicare, senza giusto o sbagliato, bene o male. Quello che trovo allucinante è definire uno così "normale", mentre uno che pensa al suicidio è "malato" e "ha bisogno di aiuto".

Ovvio: uno può rompersi il cazzo senza arrivare al pensiero di ammazzarsi. Questo è il caso limite. Ma per me è più malato chi, dopo 50 anni di merda, è ancora convinto che in qualche modo vada bene così, che la vita sia così e stop: un perenne conflitto interiore sempre più ingarbugliato e schizofrenico. Questa è una persona che si è arresa, ed è centomila volte più bisognosa di aiuto rispetto a un ventenne con l'idea di impiccarsi.

Parlo per esperienza personale. Quasi una decina di anni fa (avevo 20-21 anni) mi era passato per la testa di uccidermi. Ero molto insoddisfatto della mia vita, del fatto che mi sentivo uno schifo con me stesso e non sapevo come uscirne o non ne avevo la forza, e niente e nessuno intorno a me sembrava poter capire il mio disagio costante e consigliarmi bene. Sentivo solo cazzate, vedevo gente stupida e nessuna minima alternativa. Una sera, supino nel mio letto, ero intento a pensare a un modo per finirla senza sentire troppo dolore (ricordo che pensai di buttarmi sotto un treno, ma poi scartai immediatamente l'opzione: non sopportavo chi si ammazzava così, magari pure in orario di punta, perchè creava disagi a me e agli altri pendolari, e io non volevo essere maledetto dai miei "compagni di treno") e ho avuto un sussulto, mentale e fisico: "Ma che cazzo sto facendo? Questo non sono io. Io non sono quella roba qua. Ma vaffanculo! Adesso basta, faccio io, cazzo". "Casualmente", poi, di lì a poco nella mia vita è entrato Zeitgeist, che ho già detto più di una volta essere stato la soglia oltre la quale ho scoperto un mondo un tantino diverso da quello che credevo. Dopo è arrivata la spiritualità e un mucchio di altre cose che non sto qui a ripetere... C'è un intero blog di circa 400 articoli...

Pensare di suicidarsi è un catalizzatore mostruoso. L'insoddisfazione è uno strumento importantissimo, del quale il suicidio è il polo estremo. Ricordando per l'ennesima volta che ogni esperienza in questo universo si compone di due polarità che hanno, dunque, come principio di funzionamento lo stesso dell'elettromagnetismo, nel momento in cui si arriva al pensiero di togliersi la vita significa che c'è tantissima energia in circolo, una carica potenziale altissima, estrema, un attrito pazzesco che può sfogarsi in due modi: o ci si ammazza effettivamente; oppure si prende in mano il timone e ci si decide a scrollarsi di dosso tutto lo schifo nel quale si è immersi. Qui sta tutto alla predisposizione e alla lucidità individuale, ma in entrambi casi una persona che arriva a un punto simile è degna di essere rispettata, perchè significa che ha percepito molto chiaramente il livello di miseria nel quale TUTTI NOI NORMALMENTE VIVIAMO ed è arrivata a un punto NORMALE di non sopportazione massima.

È potenzialmente un trampolino di lancio straordinario. Riuscire a reagire al pensiero di suicidarsi, invece di rimanerne schiacciati, mette in moto dei processi e dei meccanismi dei quali non siamo nemmeno consapevoli ma che portano a dei cambiamenti enormi a livello di vita, e non parlo necessariamente di stravolgimenti clamorosi: possono essere apparentemente piccole cose, un interesse, una persona, un cambio d'opinione, una nuova tendenza, qualsiasi cosa, piano piano.

Non mi riferisco necessariamente al caso di Bennington (pur essendo coinvolto anche lui), ma è troppo comodo giustificare un suicidio dicendo "già da tempo beveva e si drogava", sottintendendo che l'alcol e la droga sono le cause che hanno portato al gesto finale. Troppo comodo ed evidentemente sbagliato perchè tutto, come sempre, è uno strumento, il cui uso è determinato dalla ragione dell'individuo. Io posso essere un alcolizzato e drogato perchè insoddisfatto della mia vita, e dunque utilizzo questi due strumenti come sfogo, come segnale della mia insoddisfazione (esattamente come la febbre non è la malattia, ma è un segnale di malattia del corpo); ma potrei anche bere e drogarmi perchè sono incuriosito dagli effetti che queste sostanze hanno sul mio corpo e sulla mia psiche. Sono due intenzioni diverse, che si manifestano in modalità diverse, pur usando gli stessi medesimi strumenti.

Il problema non è pensare al suicidio. Il problema è essere assolutamente, indissolubilmente, categoricamente convinti di essere felici. Se qualcuno ne è convinto, significa che si è arreso. Se qualcuno si suicida, significa che si è arreso, ma solo dopo aver capito l'orrore che gli altri chiamano "normalità".

Chester e Chris: vi voglio bene.



P.S.: faccio una breve divagazione sul motivo per cui la morte di Bennington è, per quelli che hanno più o meno la mia età, diversa da tutte (o quasi) quelle che hanno riguardato altri cantanti e musicisti negli ultimi anni.

Io personalmente l'ho sentita di più. Di più di Cornell, più di Prince, di George Michael, di David Bowie. Più di Amy Winehouse, perfino più di Michael Jackson. Ed è per questo che ho scritto il post: perchè è un evento che fa da catalizzatore, che smuove qualcosa dentro a un livello piuttosto profondo, come non è accaduto prima con gli altri.

Il motivo è presto detto. Per quelli nati dalla seconda metà degli anni '80 ai primi '90, i Linkin Park sono uno dei gruppi emersi, e da noi scoperti e apprezzati, durante l'adolescenza, notoriamente il periodo nel quale si formano molti dei gusti personali e affettivi veri dell'individuo. È in questi anni che una persona inizia a guardarsi intorno in maniera un po' più autonoma rispetto alla famiglia e all'ambiente che ha guidato la sua infanzia. Sono gli anni dell'affermazione di un "io" in contrapposizione agli "altri". Sono gli anni della scoperta, delle prime esperienze, del San Tommaso che deve vedere e provare, prima di poter credere.

I Linkin Park sono proprio una di queste scoperte. A differenza di, che ne so, David Bowie che ha iniziato la sua carriera artistica internazionale negli anni '60, e dunque era in circolazione già da decenni ed è stato soltanto "tramandato" a noi giovini pargoli in preda ai primi pruriti alla fine del millennio, Bennington e i suoi sono "nostri", della nostra generazione, "li abbiamo scoperti noi" nella nostra adolescenza e ci hanno accompagnati, a differenza di Amy Winehouse, per un po' di anni anche oltre, nel periodo di maturazione che va dai 20 ai 30.

È questo legame, diverso, a scuotere in misura maggiore. Lo stesso dev'essere stato per chi, negli anni '80, da adolescente ha vissuto la "nascita artistica" di George Michael o, poco dopo, quella di Chris Cornell e dei Soundgarden, per non parlare di Michael Jackson (che da piccolo ascoltavo tanto, ma perchè me l'aveva fatto scoprire mio zio).


P.P.S.: comunque sia, alla fine di tutto il discorso, resta il fatto che quando ascolto una canzone di Cornell o dei Linkin Park mi sale una certa tristezza, che nel giro di mezzo secondo netto si trasforma nell'immagine di me che scuoto Chester/Chris mentre incazzoso gli sparo in faccia un "ma porca troia, cos'hai fatto?! Ma perchè ti sei ammazzato, porcoddue!"

1 commento:

Ciccio ha detto...

Pollice su, felicissimo della tua rentrée. Anche se non so nulla del cantante in questione...